Appalti

Risoluzione del contratto, in caso di istanze reciproche il giudice deve valutare in modo unitario le azioni delle parti

di Fabio di Salvo

La Corte di Cassazione ( n. 7463 del 19 marzo 2020 ) è stata chiamata a pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto - come spesso accade - due reciproche domande di risoluzione contrattuale avanzate, rispettivamente, dall'appaltatore e dalla stazione appaltante. Nell'occasione, la Corte di legittimità ha precisato due concetti: (a) l'eventuale risoluzione in danno disposta dall'amministrazione (art. 108 D.lgs. 50/2016), non impedisce la valutazione, da parte del giudice, delle legittimità o meno del provvedimento stesso (e ciò in quanto il giudice ordinario non ha il potere di annullare i provvedimenti amministrativi, ma ha quello di disapplicarli – v., in questo senso, Cass., sez. I, n. 1531/1972; Lodo Arbitrale Roma, n. 49/2015; Lodo Arbitrale Milano, n. 60/2012; Lodo Arbitrale Roma, n. 5/1997); (b) nel compiere la valutazione "comparativa", al fine di stabilire quale inadempimento sia "più grave" rispetto all'altro, il giudice deve procedere ad una valutazione globale ed unitaria del comportamento delle parti, non "isolando" singole condotte di una di esse né stabilendo se ciascuna costituisca motivo di inadempienza, a prescindere da ogni altra ragione di doglianza.

A ben vedere, la Corte ha ripreso e ribadito l'orientamento giurisprudenziale già precedentemente espresso in tema; come noto, infatti, l'art. 108 D.lgs. 50/2016 disciplina i casi di risoluzione del contratto da parte della stazione appaltante, indicando – ai commi 3 e 4 – due fattispecie preponderanti: 1) il grave inadempimento o 2) il grave ritardo nell'esecuzione delle prestazioni.

Tuttavia, non è infrequente nei lavori pubblici che la stazione appaltante pervenga alla risoluzione del contratto, soprattutto per «grave inadempimento», solo dopo un'analoga richiesta da parte dell'appaltatore, il quale evidenzi - a sua volta - un inadempimento della committenza pubblica (per gravi carenze progettuali, non risolte; per sospensione dei lavori protrattasi per un tempo abnorme, con assoluta inerzia da parte della PA appaltante; per grave ritardo nel pagamento dei Sal maturati, con impossibilità oggettiva di proseguire nella commessa; etc. etc.). A volte, anzi, la decisione di assumere il provvedimento di risoluzione ex art. 108 perviene successivamente all'instaurazione di un contenzioso da parte dell'appaltatore, il quale richieda all'Autorità giudiziaria di accertare l'intervenuta risoluzione del contratto per fatto e colpa della stazione appaltante.

Ebbene, in tutti questi casi la costante giurisprudenza di legittimità ha sancito due importanti principi: il primo, relativo all'applicabilità degli artt. 1455 e 1458 c.c. (il giudice deve tener conto della gravità dell'inadempimento di una parte rispetto all'interesse dell'altra – Cass., sez. III, n. 7083/2006; sez. II, n. 1773/2001; sez. III, n. 8063/2001; n. 5755/1988; il danno eventualmente risarcibile si quantifica in termini di danno emergente e lucro cessante – art. 1458 c.c.); il secondo, relativo alla necessaria comparazione che il giudice deve operare in ordine al comportamento di ambedue le parti per stabilire quale di esse si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa della conseguente alterazione dell'equilibrio contrattuale (Cass. n. 1168/2000).

L'orientamento richiamato, pertanto, suggerisce - in fase precontenziosa - una ponderata e serena valutazione, sia da parte dell'appaltante sia da parte dell'appaltatore, di quali siano le condotte effettivamente rilevanti al fine di pervenire ad una richiesta (o ad un provvedimento, nel caso della Pa) di risoluzione contrattuale: ciò, evidentemente, sia al fine di evitare un inutile e defatigante contenzioso, sia al fine di non incorrere in una condanna per risarcimento danni, in caso di soccombenza in giudizio. È parimenti da sottolineare, per completezza, che la sentenza segnalata - come moltissime altre che la precedono - risente delle lungaggini del processo civile e si esprime, pertanto, su fattispecie normative molto risalenti nel tempo (Legge 2248/1865, all. F): pur tuttavia, essa riporta argomentazioni che possono a buon diritto ritenersi applicabili anche nella vigenza delle attuali normative, atteso il richiamo ai principi generali del codice civile e, soprattutto, in considerazione della sostanziale "continuità" nel tempo della disciplina relativa alla risoluzione in danno (art. 119 DPR 554/99; art. 136 D.lgs. 163/2006; art. 108 D.lgs. 50/2016).

La pronuncia della Corte di Cassazione

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