Appalti

Intervento. Ripartire dopo l'emergenza Covid-19: regole piu flessibili e non solo capitale di debito

Servono elementi per rendere più rapide le scelte senza stravolgere il quadro ma con interventi puntuali sulle norme attuali

di Daniele Spinelli (*)

Non è ancora chiaro su quali bilanci graveranno maggiormente i costi provocati da Covid 19: se gran parte di questi ricadranno sui conti pubblici – con la necessità di sempre più complesse collocazioni di titoli tra road-show intercontinentali e sindacazioni internazionali- è ancora da verificare la rispettiva quota di incidenza tra quelli degli istituti di credito e quelli degli operatori economici.

Di certo un ruolo decisivo sarà svolto ancora dal capitale di debito con tutto ciò che questo comporta, in termini di sostenibilità e di risorse impiegate, in costanza di una crescita nominale bassa pesantemente aggravata dalla crisi.

Un qualche self restraint da parte del sistema bancario - che pure nel ruolo sistemico di gestire il rischio per conto della collettività trova giustificazione della propria esistenza e dei propri non irrilevanti costi d'intermedizione - è comunque da ritenersi atteso, anche al di là della funzione di stimolo delle diverse forme di garanzie pubbliche approntate. E ciò non per la scarsità di fondi a disposizione, all'opposto molto capienti, ma per le regole ed i vincoli d'impiego sempre più prudenziali, e per la necessità dell'intero sistema bancario di agire ancora di più sul mercato finanziario per recuperare quei margini di redditività sempre meno assicurati da quello del credito e dalla considerevole detenzione di titoli pubblici, frutto del legame perverso tra emittenti sovrani e banche.

In questo quadro, per rilanciare gli investimenti, intercettare e impiegare capitale di diversa natura più che un'opzione sembra essere un ineludibile necessità: basterebbe qui riferirsi ai dubbi che sono sorti sulla capienza stessa del fondo nazionale Salva-opere, di cui questo giornale ha già dato evidenza.

Si ricorderà, che una proposta piuttosto" creativa" antecedente al Covid, era stata quella dell'emissione dei cd minibot. Compresane bene la natura, il proposito sembra definitivamente tramontato: l'emissione, se si risolvesse nella creazione di una nuova valuta sarebbe illegale, diversamente sarebbe anch'essa un'innominata forma di nuovo debito
Un'altra idea che timidamente si affaccia nel dibattito pubblico, è quella di una qualche forma "d'imposta patrimoniale" veicolata alla riduzione del debito pubblico, con liberazione di risorse per gli investimenti conseguenti alla riduzione del servizio del debito.
L'opzione ha dalla sua la forza dei numeri.

Come evidenziato nel report pubblicato dall'Osservatorio Conti pubblici italiani, la ricchezza reale e finanziaria degli italiani è stimata in 9.743 miliardi: un valore che è pari a 8,4 volte il reddito lordo disponibile, il più alto fra tutti i principali paesi, compreso la Germania, dove il rapporto ricchezza/reddito è di 6,1 volte. Un ragionamento plausibile sarebbe dunque il seguente: con un'aliquota, ad esempio del 10 per cento, si garantirebbe un gettito di 974,3 miliardi e il rapporto debito/Pil calerebbe subito. Ma se l'impostazione teorica tiene, l'operatività potrebbe non riflettere la correttezza del calcolo, dal momento che far quadrare i conti con una tassa che colpisce la ricchezza finanziaria e reale degli italiani è piuttosto complicato, con effetti non immediati e, comunque, l'allargamento dello spettro fiscale ha ancora scarso consenso politico.

C'è poi tutta la questione legata alle somme che potranno essere messe a disposizione dalle diverse istituzioni eurounitarie. Va subito detto che anche detti strumenti, pur nelle loro diversità, si risolvono anch'essi in larga parte in prestiti, poiché la natura eurounitaria incide sul tasso d'impiego, ma non sull'obbligo di restituzione. Anche gli annunciati quanto auspicabili Recovery bond, al momento peraltro un mero accordo tra Germania e Francia, pur transitando nel bilancio europeo, indirettamente, almeno in parte, finirebbero comunque in capo ai conti pubblici nazionali, essendo questi i contribuenti esclusivi dello stesso: secondo alcune stime se l'Italia ottenesse, ad esempio, 100 miliardi solo 45 sarebbe ottenuti a fondo perduto mentre 55 sarebbero da restituire secondo i tempi di rimborso negoziati, salvo improbabili ipotesi di tassazioni europee. Qui in disparte il non trascurabile profilo che questo transito nel Bilancio europeo non renderebbe certamente immediato l'impiego di questa pur importante iniezione finanziaria.

Fermo dunque l'auspicio che detti accordi vengano comunque raggiunti in tempi brevi, resta rilevante la questione di come rilanciare sin da subito gli indispensabili investimenti.
Al riguardo, in primo luogo, è necessario prendere atto che Il ritardo infrastrutturale del nostro paese rispetto alle altre principali economie non deriva esclusivamente dall'insufficienza delle risorse finanziarie, ma anche da incisivi miglioramenti nella selezione, programmazione e realizzazione delle opere pubbliche.

Così, non diventa affatto secondario, il connesso profilo delle regole che presiedono agli investimenti ed alla spesa pubblica in generale. Una drastica ed incisiva riduzione degli innumerevoli "adempimenti amministrativi" è indubbiamente il primo passo da compiere di modo che tutti possano apprezzarne l'efficacia, piuttosto che interrogarsi sulle ragioni della loro esistenza. Peraltro, come efficacemente dimostrato in più occasioni su questo giornale da Roberto Mangani, una velocizzazione dei procedimenti in materia di contratti pubblici sarebbe realizzabile anche con immediatezza, con puntuali interventi sulla legislazione vigente.

In ogni caso, in attesa dell'entrata in vigore del Nuovo regolamento che dovrebbe superare le obiettive difficoltà create dal meccanismo delle linee Guida, si auspica che con il prossimo intervento normativo sul Codice dei contratti, quantomeno con riguardo a tutto il vasto mondo "del sotto soglia" -che è bene ricordare in termini di regole specifiche è nella piena disponibilità della potestà normativa nazionale- introduca elementi di dinamizzazioni delle decisioni pubbliche, in termini di tempi e di discrezionalità. Sempre in quest'ottica, non meno rilevante sarebbe anche la previsione di assetti regolativi diversificati, che tengano conto anche delle plurime strutture dei committenti e della loro capacità di gestione amministrativa, così da evitare che un Ente Lirico o una Fondazione pubblica si trovi ad applicare, soprattutto nei lavori, sostanzialmente le stesse regole di un Comune o di un Ministero.

In buona sintesi, con riguardo al decisivo tema delle regole, si tratta di immaginare una nuova giuridicità, sempre meno condizionata da apparati concettuali risalenti e rigidi, che sia guidata da ampie autonomie decisionali, con tendenziale spostamento a valle dell'esecuzione del sistema dei controlli, anche per verificare i risultati conseguiti piuttosto che la regolarità di tipo eminentemente documentale. Ciò significa che il diritto contrattuale pubblico non dovrebbe trovare esclusivamente nei Tribunali amministrativi le proprie modalità conformative, non essendo più sufficiente il mero controllo dell'inosservanza della norma e la conseguente pedissequa aderenza ai canoni della continuità giurisprudenziale.

Se infatti questa ininterrotta espansione amministrativa sul terreno negoziale ha il pregio di aver delineato rituali prevedibili, dall'altro si è trasformata in una sorta di cappotto di ferro che, come in un paradosso, non scongiura illeciti ma impedisce l'emersione di strategie acquisitive performanti, per cui, per dirla con von Hayek, tra i Committenti e gli operatori economici si dà vita ad un "ordine catallatico" che crea una mera intesa riguardo ai mezzi al di là di ogni intesa relativa ai fini. Ma questa impostazione dello scambio appare del tutto incompatibile con la conclusione di un contratto pubblico, che, in quanto tale, non impegna solo chi le assume, nè può essere l'ambiguo esito di un confronto tra destrezze partecipative e meccaniche applicazioni di norme.

Non è tanto, dunque, un tema di allentamento delle regole quanto piuttosto di una loro conversione verso moduli negoziali più flessibili che, se consapevolmente amministrati, non nuocciono affatto alla stabilità ed alla trasparenza ma anzi ne diventano una funzione. Chiunque abbia operato in contesti internazionali, ha avuto concreta contezza della modalità informale d'azione dei diversi Committenti per cui, in sintesi, la regola è che la negoziazione deve perlopiù appuntarsi sui contenuti finalistici del contratto e sulla sua capacità di trasmettere le conseguenti informazioni. Del resto, non c'è virtuoso processo di governance contrattuale che non presupponga, in primo luogo, la disponibilità di un'elevata qualità dei dati, di fatto e di diritto, ed una loro appropriata e ponderata condivisione tra le parti. Così una rilevante ed innovativa rimodulazione dei limiti procedurali, che distribuisca meglio diritti e risorse dirigendo così l'azione amministrativa verso una più performante direzione, è un'esigenza non più eludibile, essendo piuttosto la pervicace inclinazione allo status quo che richiede di essere spiegata.

Ma come detto, oltre ai modi di porre in essere il diritto per farlo meglio funzionare, il rilancio degli investimenti comporta anche la necessità di mobilitare risorse finanziare che non siano solo quelle del debito. Il tema è complesso e pieno d'implicazioni, nondimeno può essere utile tratteggiare un percorso che potrebbe risultare virtuoso alla luce di un dato storico difficilmente ripetibile: la presenza di tassi d'interesse prossimi alle zero, e in alcuni paesi addirittura in territorio negativo.

Detti tassi se da un lato stimolano ed alleggeriscono il debito -ma non del tutto in ragione del verosimile significativo spread "soggettivo" del debitore in tempi di crisi- dall'altro rappresentano una formidabile occasione per far avvicinare maggiormente al settore il vasto mondo dei Fondi d'investimento che il mercato mobiliare, con questi bassi livelli di rendimento, può appagare solo parzialmente: in alcuni settori, come ad esempio quello dei Beni culturali, le stesse Fondazioni bancarie potrebbero individuare in questi ambiti una diversa occasione d'impiego dei propri rilevanti patrimoni. In particolare, detti capitali potrebbero trovare nei contratti di PPP un efficace atterraggio normativo, considerando l'ampio raggio delle operazioni economiche giuridicamente possibili con questo duttile strumento contrattuale.

Peraltro queste operazioni potrebbero essere d'interesse non solo per i capitali più pazienti, e cioè quelli con lunghi orizzonti temporali dell'investimento, ma anche per quei fondi con maggiore propensione al rischio, che potrebbero accollarsi il finanziamento della critica fase iniziale dei lavori dove vi sono rilevanti uscite e non ancora cassa. Del resto, anche dal lato pubblico, sono noti gli indubbi vantaggi dei Ppp: riducono il consumo di capitale pubblico, ne posticipano l'impiego alla fine e, soprattutto, creano una "rotazione permanente" del capitale pubblico, nel senso che la produzione dei nuovi servizi viene ad essere finanziata dalla cessione di quelli precedenti. Da questo punto di vista, anche per scongiurare livelli subottimali d'impiego, un'idea potrebbe essere quella di organizzare agenzie specializzate, anche su base regionale, a supporto dei tanti attori pubblici per svolgere la cd "attività di arranging" e cioè la messa a disposizioni di competenze qualificate che coadiuvano gli attori pubblici nell'elaborazione o nell'esame dei piani economici e finanziari e nella negoziazione dei termini del finanziamento.

(*) Avvocato, Studio legale Spinelli

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