Appalti

Pietro Salini: l'Italia può ripartire ma serve un piano da 100 miliardi

Il ceo di Webuild traccia le linee guida di un disegno davvero ambizioso e di fatto messo già nero su bianco: il rilancio del Paese con un maxi programma infrastrutturale

di Laura Galvagni

Un piano da 103 miliardi che può valere fino a 322 miliardi di impatto positivo sull’economia. Un vero e proprio Progetto Italia che vada oltre le opere strategiche. Questo ci vuole per il paese. Ne è convinto il ceo di Webuild, Pietro Salini, che in questo colloquio con Il Sole 24 Ore, traccia le linee guida di un disegno davvero ambizioso e di fatto messo già nero su bianco: far ripartire l’Italia con un maxi rilancio infrastrutturale. «I soldi ci sono, definiamo nuove regole, senza inventarci nulla ma usando quelle europee. Non perdiamo quest’occasione, ci troviamo di fronte a una crisi epocale dagli effetti devastanti. Dobbiamo combattere questo mostro creando fiducia e lavoro», ha esordito l’imprenditore.

Parliamo di una cifra enorme, siamo un paese già fortemente indebitato come possiamo sostenere un intervento di spesa pubblica di tale portata?

I denari ci sono, certo se li impieghi per finanziare la spesa corrente non produci nulla di buono ma se li usi per fare investimenti il discorso cambia radicalmente. Possiamo contare complessivamente su 158 miliardi di fondi utilizzabili per le infrastrutture tra fondi strutturali europei, fondi di sviluppo e coesione, il meccanismo europeo di stabilità e i social bond. Tutti denari, peraltro, che proprio per la particolarità della situazione in cui ci troviamo, hanno un costo prossimo allo zero. Siamo in un periodo di interessi negativi, praticamente ti pagano per indebitarti. Se non ora quando? Credo che la percezione della crisi in cui rischia di cadere il paese sia ancora molto modesta. Ma il nostro nemico è la disoccupazione. È un mostro che possiamo combattere solo creando fiducia e lavoro e per questo vanno attivati strumenti di rilancio anticiclici che possano sopperire alla futura carenza di domanda. L’Italia è un grande esportatore e proprio per questo rischia di pagare più di altri questo scenario avverso: mancherà la domanda interna ed estera.

E l’unico modo per rilanciarla sono le opere pubbliche?

Questo genere di interventi ha un moltiplicatore che può essere superiore alle 3 volte. Questo significa che se mettiamo in agenda lavori per 103 miliardi possiamo avere ricadute positive sul Pil per oltre 320 miliardi, che equivalgono peraltro alla creazione di 2,5 milioni di posti di lavoro.

Siamo un paese che spesso litiga con la burocrazia quando c’è da posare una prima pietra.

In quattro anni abbiamo speso appena 4 miliardi di euro in investimenti in infrastrutture e siamo un territorio che sconta un gap elevatissimo rispetto al resto d’Europa. Un gap che ci costa, secondo le ultime stime, oltre 70 miliardi l’anno. È un’esigenza, anche competitiva, quella di ripartire dai grandi interventi e se non sfruttiamo quest’occasione resteremo ancora più indietro. Per farlo però non possiamo ragionare secondo le vecchie regole. Non si può nemmeno immaginare di mettere in pista 100 miliardi di opere utilizzando i vecchi schemi.

Cosa intende?

Serve un modello Genova. Abbiamo ricostruito il Ponte Morandi in otto mesi. E ci siamo riusciti perché siamo stati in grado di allineare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti. Tutte le autorità si sono mosse in maniera proattiva, il paese ha fatto squadra. E dobbiamo fare lo stesso anche ora. Il codice degli appalti così com’è non può funzionare. Ma non puntiamo a norme speciali basterebbe che, come hanno fatto anche gli altri paesi dell’Unione, venisse applicato pari pari il codice europeo. Dobbiamo eliminare la cultura del sospetto e fissare regole semplici ed efficaci. Abbiamo insegnato al mondo come si costruisce e le imprese ci sono.

Quando parla di un piano da 103 miliardi a cosa si riferisce esattamente?

Con 13 miliardi possiamo sbloccare 41 miliardi già stanziati e dare il via a 17 grandi opere strategiche immediatamente cantierabili. Ma questo è solo una parte di ciò che dobbiamo avviare. Pensiamo solo all’edilizia scolastica, il 50% degli edifici non ha il certificato di abitabilità. Basterebbero 10 miliardi per rimettere a norma le strutture e far studiare i nostri figli in sicurezza. Poi ci sono gli ospedali, abbiamo tagliato decine di migliaia di posti. Ci vogliamo dotare di un sistema sanitario come la Germania che ha consentito di affrontare la pandemia, curare le persone e assicurare la continuità della produzione? Con 20 miliardi potremmo dotare le nostre città di sistemi di mobilità urbana rispettosi dell’ambiente. Se avessimo avuto delle carceri adeguate non avremmo dovuto sopportare lo scandalo della scarcerazione dei mafiosi per l’emergenza Covid-19.

Come pensa che in Italia si possa dar seguito a un progetto di tale portata in dodici mesi?

Serve una regia unica, una piattaforma centralizzata presso la presidenza del Consiglio che allinei e coordini tutte le amministrazioni su un piano infrastrutturale di questo tipo. Sul piano pratico abbiamo una serie di proposte come la nomina di commissari straordinari per l’esecuzione delle opere e l’emanazione di decreti per il pagamento immediato degli importi secondo lo stato di avanzamento dei lavori, per l’erogazione di anticipi contrattuali e l’applicazione del meccanismo di revisione dei prezzi. Se lavoriamo tutti assieme si può fare.

Intanto ieri avete posato la prima pietra della statale Jonica, appalto che risale a 10 anni fa il cui terzo megalotto è partito solo ora.

Non possiamo più ragionare secondo queste tempistiche e per questo vorrei che quella prima pietra rappresentasse il simbolo della ripartenza, che diventasse un grande esempio da moltiplicare. Anche perché con questo cantiere parte nei fatti Webuild.

Webuild che naturalmente è “parte interessata” a che si realizzi questo maxi piano. Capace magari di dare nuovo slancio a quella che era l’idea iniziale di Progetto Italia, ossia aggregare imprese italiane per fare una realtà di peso anche sullo scenario internazionale.

Siamo leader mondiali nel settore dell’acqua e tra i primi al mondo nel comparto dei trasporti. Lavorano con noi 70 mila persone in 55 paesi, uomini e donne di provata capacità. Conosciamo il nostro ruolo e in virtù del fatto che abbiamo una presenza pubblica nel capitale (Cdp, ndr), tanto più sentiamo la responsabilità di proporre al paese una strada concreta per la ripartenza. È evidente che la nostra prospettiva iniziale resta valida e lo diventerà ancor di più se aumentando l’offerta si creeranno le condizioni per mettere assieme le grandi competenze. Per mancanza di lavoro e investimenti abbiamo cancellato 120 mila imprese negli ultimi 10 anni e perso oltre 650 mila posti di lavoro.

In questo scenario pensa che farete ricorso al Dl liquidità?

Noi adesso non ne abbiamo bisogno. Viviamo di contratti pluriennali e quindi abbiamo subìto per il momento meno di altri l’impatto della pandemia. Il Dl liquidità è certamente uno strumento utile, purché ci sia mercato, altrimenti non avrebbe senso. Se non c’è lavoro il resto non serve.

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