Urbanistica

La rigenerazione delle periferie fra città di pietra e città di carne

«Rigenerare il tessuto sociale più che rammendare lo spazio» è una delle conclusioni cui giunge il quinto Rapporto sulle città curato dal Centro nazionale di studi per le politiche urbane (Urban@it)

di Giorgio Santilli

C'è voluto il treno ad alta velocità in Italia per svelare il nesso vincente fra infrastruttura e servizio. L’infrastruttura è, o dovrebbe essere, sempre – nella sua corretta accezione – un contenitore di servizi; e l’assenza di servizio – quindi di collegamento diretto, continuativo e vivo con l’utente, con la persona e i suoi bisogni – svuota l’opera, la rende carrozzone o cattedrale nel deserto. Qualcosa del genere è successo guardando alle politiche di riqualificazione perseguite per anni nelle periferie italiane: la città di pietra troppo spesso non si è messa al servizio della città di carne, per usare l’espressione utilizzata da studiosi come Ilda Curti e Giovanni Laino. L’architettura, l’urbanistica, l’edilizia hanno fallito, non di rado, nel loro tentativo di «modernizzazione verso un decente welfare territoriale». L’approccio «fisicista», che antepone la realizzazione del contenitore alla fornitura di un servizio urbano e sociale (abitativo, di mobilità, di sostegno alle attività economiche, di aiuto alla povertà), ha mostrato tutti i suoi limiti.

È proprio questa – «rigenerare il tessuto sociale più che rammendare lo spazio» – una delle conclusioni cui giunge il quinto Rapporto sulle città curato dal Centro nazionale di studi per le politiche urbane (Urban@it) che sarà presentato oggi a Bologna ed è dedicato alle periferie. Non senza una verve polemica che vuole evidentemente suscitare reazioni e dibattito. «Senza sottovalutare gli straordinari meriti di una figura come Renzo Piano – si legge nelle conclusioni del Rapporto curato dallo stesso Laino – è necessario un cambio di impostazione netto: essendo essenzialmente una questione di sicurezza sociale intesa in senso ampio, il tema delle periferie non può essere trattato in modo efficace se la regia dei programmi è affidata agli esperti di architettura e di urbanistica».

Non si può certo ricomprendere il senatore a vita – meritevole anche di aver riportato il tema delle periferie in Parlamento – fra quei «qualificati maestri dell’architettura che hanno ritenuto giusto sperimentare la costruzione di quartieri modello di edilizia intensiva» diventati poi i «casermoni» che sono arrivati «a incarnare tutto il male della periferia pubblica degradata». Però il tema di un’azione integrata che andasse oltre la riqualificazione fisica oggetto di varie generazioni di programmi e di bandi di gara degli ultimi 20 anni era anche uno dei pilastri della relazione con cui si è concluso il 14 dicembre 2017 il lavoro della commissione parlamentare sulle periferie.

E proprio quel lavoro politico largamente condiviso in Parlamento punta a rilanciare ora il Rapporto Urban@it, nel timore che possa essere rapidamente dimenticato, anziché orientare l’agenda di governo e Parlamento. Timore giustificato dalla mancata riproposizione della commissione in questa legislatura.

Anche le altre proposte del Rapporto sono in linea con il lavoro della commissione parlamentare: redigere una mappa – tematica e geografica – delle priorità di intervento, partendo magari da situazioni critiche come quelle di Roma; innovare le politiche abitative per favorire la crescita del mercato della locazione per redditi bassi; «considerare lo stock di edilizia residenziale popolare come standard» secondo la proposta degli assessori milanesi Gabriele Rabaiotti e Pierfrancesco Maran; accrescere gli investimenti per la manutenzione delle attrezzature di welfare materiale; favorire lo sviluppo di servizi di mobilità condivisa; istituire l’Agenzia sociale di quartiere come risposta istituzionale integrata sul territorio; sul fronte della scuola e della formazione, cogliere «opportunità e percorsi che, soprattutto per l’obbligo formativo, possono essere ben concretizzate grazie all’impegno di agenzie sociali, esterne alla scuole anche se coordinate con esse».

Ma il vero tema critico e polemico che brandisce il Rapporto riguarda la modalità di programmazione e assegnazione delle risorse pubbliche e si ricollega direttamente al rapporto fra città di pietra e città di carne: «È indispensabile passare dai bandi a una strategia stabilmente finanziata per almeno dieci anni, per rigenerare le città a partire dalle loro periferie». In questa proposta c’è il rifiuto del metodo dei bandi che furono il cuore del Piano città di Mario Monti e del Piano periferie di Matteo Renzi e privilegiarono la cantierabilità, spesso effimera, gran parte delle volte inefficace per un vero lavoro di rigenerazione. C’è la proposta alternativa di una programmazione decennale su cui fondare l’azione pubblica integrata, vero perno di una strategia nuova per la periferia.

Ma posto il tema della necessità di una più efficace distribuzione delle risorse pubbliche, resta da capire – in chiave di agenda politica – se sia meglio rigettare tout court il tema infrastrutturale considerandolo esclusivamente «approccio pervasivo» attribuito alla «cultura delle opere pubbliche» anche quando si sono tentati «l’apertura dei processi decisionali», le «significative pratiche di partecipazione» e il «coinvolgimento degli abitanti». O se non sia più opportuno, in città degradate anche fisicamente, distinguere, per il passato e soprattutto per il futuro, le buone opere da quelle cattive, la buona urbanistica da quella cattiva, la buona architettura da quella cattiva, dove il crinale passa proprio per la capacità di queste discipline di dialogare con il quartiere, sviluppare il servizio, essere parte di un intervento integrato più ampio.

Tema niente affatto astratto se si guarda agli 800 milioni messi in legge di bilancio per il piano di «rigenerazione urbana» da assegnare con bando per i comuni. Si può tentare di scrivere criteri che tengano conto della «città di carne»? Fare di questo intervento un pezzo di un più ampio piano per le periferie, magari con Agenzie locali a fare da raccordo e da ascolto della cittadinanza? O si deve invece far cadere del tutto questo intervento, rinviando a un piano lungo tutto da creare?

In fondo, la crisi economica incombe anche in periferia, con le sue urgenze non più rinviabili, se è vero – come sostiene la Rete urbana delle rappresentanze (Rur) che «il 72,3% dei residenti nelle periferie metropolitane rileva come, a causa della recessione, molti negozi e bar abbiano chiuso; per il 56,6% sono diminuiti i servizi locali e per il 50,4% sono peggiorate la manutenzione e la pulizia delle strade e degli spazi pubblici».

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