Progettazione

Sulla prestazione low cost (o gratuita) il professionista risponde all’Ordine, ma il contratto è sempre valido

di Massimo Frontera

Il compenso tra un architetto o un ingegnere e il committente è oggetto di libera contrattazione tra le parti, incluso il caso della rinuncia da parte del professionista. Pertanto la mancata determinazione del compenso in base a tariffe di riferimento non può configurare la nullità del contratto.  Questi, in sintesi, i principi affermati dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n.14293/2018 (Sez. II ) pubblicata il 4 giugno scorso.

«Il primato della fonte contrattuale - si legge in uno dei passaggio chiave della pronuncia della Cassazione - impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d'opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva resistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe».

Per quanto riguarda le conseguenze della riduzione del compenso (fino all’eventuale azzeramento), i giudici escludono che l’elemento del prezzo abbia a che fare con l’interesse generale della collettività o alla qualità dell’opera. L’unico elemento da valutare è in relazione alla comunità dei professionisti, rispetto ai quali il progettista che accetta incarichi gratuiti può essere, «in determinate circostanze», semmai oggetto di provvedimenti da parte dell’ordine, ma nulla di più.
«Nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto - proseguono i giudici - manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, le norme sull'inderogabilità dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettività ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile - in difetto di un'espressa previsione normativa in tal senso - il ricorso alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la violazione d'interessi generali. Il principio d'inderogabilità è diretto a evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi (Cass. n. 15786 del 2013)».

La sentenza della Corte di Cassazione n.14293

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