Progettazione

Il commento: Aravena a Venezia scelta azzeccata, la «star» delle case sociali porta aria nuova in Biennale

di Luigi Prestinenza Puglisi

Bisogna riconoscere che la Biennale di Architettura di Venezia non sbaglia una mossa e darne merito al suo abilissimo presidente Paolo Baratta. Due anni fa aveva fatto il colpaccio con Rem Koolhaas. Quest'anno non rimaneva che portare Frank O. Gehry, l'unico architetto per fama comparabile all'olandese, oppure Renzo Piano, il nostro campione nazionale. Ma sarebbe stato impossibile: entrambi i personaggi preferiscono impiegare il loro tempo a disegnare edifici e sanno che devono evitare avventure traboccanti di pericoli come la preparazione di una mostra internazionale: che suscita infinite polemiche, che sancisce chi sta dentro e chi sta fuori, che delinea, a dispetto dei critici, i prossimi indirizzi culturali.

Occorreva allora sparigliare. Trovare un giovane (un giovane per modo di dire: diciamo sotto i cinquanta anni, che in architettura è ancora considerata l'età che delimita la prima fase della carriera), possibilmente non europeo e non statunitense, impegnato nel sociale e, soprattutto, abbastanza legato alle mode culturali da non risultare indigesto al caravanserraglio dell'architettura internazionale. Insomma, uno che fosse già una star ma allo stesso tempo passasse per non esserlo, perché oggi non c'è marchio dell'infamia peggiore che essere un'archistar, salvo ovviamente nel momento in cui ci si batte per gli incarichi.

Ed ecco che Baratta tira fuori Alejandro Aravena. È nato nel 1967, insegna all'Università cattolica del Cile e ha anche insegnato per 5 anni ad Harvard, è impegnato nel programma Elemental che prevede la realizzazione di case ultrapopolari, è un architetto raffinato che si distacca dallo stile bombastico alla Hadid o alla Libeskind, è membro di giuria del premio Pritzker, che per i progettisti equivale al Nobel. In più è un bell'uomo e di gran fascino, veste casual con un tocco etnico, scrive citando Nietzsche ed ha frequentato a Venezia corsi post laurea e di incisione presso l'Accademia di Belle Arti.

Il tema della prossima biennale sarà, ovviamente, il sociale. In questo periodo moralista, consapevole e autoflagellatorio non potrebbe essere altro e Aravena lo affronterà con ampiezza di vedute e la sicurezza di chi in questo campo opera da diversi anni, appunto con il programma Elemental.

« Ci sono numerose battaglie- ha dichiarato- che devono essere ancora vinte e molte frontiere che devono necessariamente espandersi per migliorare la qualità dell'ambiente edificato e, di conseguenza, per migliorare la qualità della vita delle persone».

E poi ha aggiunto: «Nella 15a Mostra Internazionale di Architettura si racconteranno le storie delle realizzazioni che, con successo, si muovono verso questa direzione».
Sarà una mostra noiosa a carattere sociologico come quella del 2010 di Richard Burdett?
Pensiamo di no. Aravena è un bravo architetto e se sostiene che gli edifici devono scomparire davanti a chi li vive passando in secondo piano, poi ammette che, se guardati con un occhio estetico, devono riapparire per mostrarsi come opere d'arte.

Resta solo un dubbio. Nella produzione di Aravena c'è una non risolta dicotomia tra la sua produzione destinata a una clientela facoltosa e quella con finalità sociale. La prima è esteticamente sin troppo elaborata, caratterizzata come è da giochi di volumi in cui è forte la componente scultorea anche se declinata in chiave minimalista; la seconda è rigida e un po' ripetitiva (è ricorrente uno schema in cui si alterna un pieno e un vuoto lasciato alla autocostruzione degli abitanti).

Speriamo che il dualismo, tra opere belle ma poco rilevanti per il progresso e opere brutte ma piene di sane virtù, non lo si debba patire anche nella sua biennale.

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