Appalti

Intervento. Il falso mito della sicurezza: cambiare le norme per migliorare la manutenzione

Il Testo unico edilizia va rivisto, stabilendo una definizione della sicurezza come la soglia minima accettabile di rischio scelto sulla base delle conseguenze del danno

di Pietro Baratono (*)


Un'opera di ingegneria è sempre più spesso caratterizzata da un elevato contenuto tecnologico o da una notevole interconnessione tra gli aspetti architettonici, strutturali e tecnologici, con un aumento del numero delle interdipendenze, delle nuove tecnologie, dei nuovi materiali, dei processi innovativi che sostanzialmente introducono nuovi rischi in un ambiente soggetto a cambiamenti antropici e naturali. D'altro canto molte opere hanno raggiunto o stanno raggiungendo la fine del loro ciclo di vita, alcune anche a causa della scarsa manutenzione; alcuni importanti incidenti hanno aperto il dibattito sulla evitabilità di tali disastri, sull'assenza di vigilanza e di manutenzione, introducendo una gestione emergenziale tipica di una assenza di programmazione consapevole delle azioni manutentive.

È anche evidente che la maggioranza delle stazioni appaltanti ha da sempre guardato solo alla progettazione e costruzione dell'opera, trascurando il problema della corretta gestione del cespite durante il suo ciclo di vita, dopo la consegna dello stesso all'ente usuario. Basti pensare ad esempio che il manuale di manutenzione dell'opera è stato previsto nella progettazione esecutiva solo dopo la Legge Merloni del 1994 e che per molti anni – e talvolta anche oggi - ha costituito solamente un adempimento formale.

Nel medesimo tempo la nostra società pretende più certezze, vuole una "garanzia della sicurezza" che lo stesso concetto di sicurezza, che presenta natura aleatoria, non può garantire. Di fatto il termine "garanzia della sicurezza" appare un ossimoro, né è la ricerca del profitto economico a limitare l'adozione delle misure necessarie per ottenerla e a determinare gli insuccessi.

D'altronde sicurezza deriva dal latino sine cura, e non vi è alcuna opera che possa essere costruita ed utilizzata per sempre senza alcuna manutenzione (sine cura appunto) e senza alcun rischio.

In linea teorica, le quantità fisiche riguardanti la resistenza e le azioni dovrebbero essere analizzate in chiave statistica, con la conseguenza che la verifica della sicurezza dovrebbe essere intesa in senso probabilistico ed in termini di affidabilità. A titolo esemplificativo, la probabilità di collasso di un edificio progettato secondo le norme ha un valore indicativo di 10 -6(uno su un milione), il danno individuale, normalizzato rispetto al numero dei passeggeri, ai chilometri di galleria e per l'anno in una galleria ferroviaria è 10-9 (uno su un miliardo), simile alla medesima probabilità per un aeromobile.

I livelli di sicurezza da garantire, in via teorica e astratta, dovrebbero essere precisati in termini probabilistici puri con una probabilità annua di collasso e si dovrebbero esprimere imponendo un limite superiore al valore accettabile di tale probabilità. I loro valori dovrebbero risultare da un compromesso con valutazioni economiche e condizionati all'ipotesi di garanzie di qualità in costruzione e mantenimento, tali da escludere la possibilità di errori grossolani.

Da queste considerazioni è facile comprendere che la probabilità di collasso nulla, ovvero la totale "garanzia della sicurezza" ha un valore teorico pari a uno su infinito. In altri termini non esiste.

Le Norme Tecniche introducono una semplificazione, considerano cioè che la sicurezza strutturale possa essere introdotta in modo implicito, rappresentando la resistenza e le azioni non attraverso la loro densità di probabilità ed una complessa analisi statistica, ma mediante i valori cosiddetti caratteristici delle resistenze e delle azioni, definiti attraverso una probabilità di superamento o di non superamento, se stiamo parlando di azioni o di resistenze, pari convenzionalmente al 5 per cento.

La misura della sicurezza convenzionale prevista dalle norme si ottiene allora, con il "metodo dei coefficienti parziali" di sicurezza, tarati per esprimere una probabilità di collasso accettabile, in funzione di una serie di fattori moltiplicativi delle azioni e divisivi delle resistenze comprendenti l'importanza dell'opera, la sua esposizione in termini di persone e così via.

Questa semplificazione, accoppiata ad una mancata definizione normativa della sicurezza e del rischio nelle leggi primarie sulle costruzioni, ha tuttavia portato ad una serie di riflessi negativi, anche di carattere giudiziario, soprattutto quando si parla di costruzioni esistenti. la prescrizione dei fattori di sicurezza attraverso una norma cogente non può cambiare la realtà delle cose: il rischio si può minimizzare ma mai annullare. Quindi nel momento stesso in cui si condanna un tecnico o lo si assolve in base al rispetto o al non rispetto di una regola, si fa una cosa priva di senso perché si giudica in base ad un fatto formale e non di sostanza.

La giustizia penale dovrebbe comprendere che il rispetto della regola non garantisce nulla rispetto al rischio reale di un superamento di uno stato limite. Nonostante siamo entrati nel XXI secolo, siamo ancora vittime di un modo deterministico di concepire la sicurezza. La sicurezza si erge quindi quale falso mito mentre sarebbe più corretto spiegare ai cittadini che l'aleatorietà sia delle azioni che della resistenza dei materiali e soprattutto delle caratteristiche meccaniche dei terreni di fondazione comporta ineluttabilmente un rischio.

Spetta al normatore trovare il giusto equilibrio tra una esigenza di sicurezza e l'impatto economico che tale sicurezza comporta attraverso un corretto approccio alla mitigazione del rischio, come nel caso in cui si sia in presenza di costruzioni esistenti progettate con norme oramai superate. Né va trascurata la necessità di investire nella conoscenza del nostro patrimonio infrastrutturale esistente, perché solo una conoscenza approfondita consente di mitigare i rischi di collasso ottimizzando una spesa che altrimenti sarebbe insostenibile per le casse dello Stato.

Va comunicato meglio, anche legislativamente, che la sicurezza è sempre accoppiata ad un rischio e che questo, nelle sue varie componenti e combinazioni, va classificato, così da fornire un supporto imprescindibile a decisioni strategiche. Combinando un mondo meglio informato in tema di rischio e sicurezza, più competitivo ed innovativo, si avrebbe come risultato quello di una società con un rischio mitigato e quindi con un livello di sicurezza maggiore.

La classificazione del rischio è un meccanismo che partendo dalla identificazione dei fattori di rischio, delle sue componenti ed attributi statistici porta alla sua quantificazione e classificazione.

Ciò consente di costituire una base dati per un approccio decisionale efficiente, basato
eventualmente su algoritmi logici e/o un monitoraggio dinamico delle grandezze che influenzano il rischio, nel caso della necessità di una sua valutazione in tempo reale.
Oggi invece con l'attuale legislazione non è così; infatti l'art.64 del Dpr 380/01, mai rielaborato sulla base delle conoscenze scientifiche del nuovo millennio, stabilisce che «La realizzazione delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, deve avvenire in modo tale da assicurare la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità».

Questo ossimoro appare del tutto superato, visto che la «perfetta stabilità» non esiste e che è altrettanto impossibile «evitare qualsiasi pericolo». Il Dpr 380/01 va quindi profondamente rivisto, stabilendo una definizione della sicurezza come la soglia minima accettabile di rischio scelto sulla base delle conseguenze del danno o del collasso sulle persone e sui beni nell'accezione più generale.

Appare prioritario di conseguenza modificare il quadro normativo attuale, figlio di un concepimento normativo risalente a circa mezzo secolo fa, caratterizzato da un approccio sostanzialmente prescrittivo, che limita la capacità di scelta consapevole del progettista, relegandolo al ruolo di esecutore spesso acritico di una norma di progettazione cogente. Occorre rendere meno cogente l'attuale sistema normativo, separando la parte della sicurezza, con i relativi coefficienti, ed utilizzando per la progettazione un approccio più orientativo come i Code of practice ovvero le Linee Guida.

Va riconosciuta quindi la necessità di riconsiderare le politiche di sicurezza e di rischio, anche e soprattutto dal punto di vista legislativo, con la consapevolezza che la transizione tra il sistema analogico e quello digitale, di cui si intravedono oggi i primi passi, apre un mondo di opportunità per una innovazione competitiva che consente una maggiore consapevolezza nella gestione del cespite e con un bilanciamento corretto tra i costi ed i rischi di un insuccesso.

(*) Provveditore per le Opere pubbliche della Lombardia e dell'Emilia Romagna

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