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Interdittiva antimafia, Palazzo Spada: ecco come il giudice deve valutare la correttezza del prefetto

di Massimo Frontera

Il Consiglio di Stato puntella ulteriormente l'istituto dell'interdittiva antimafia, precisando anche il ruolo del giudice amministrativo chiamato a esprimersi su un istituto posto sul delicato crinale tra l'abuso di potere e la protezione dai rischi di infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto sano della società civile. Ruolo che - ricordano i giudici - va svolto seguendo i binari della "tassatività sostanziale" e la "tassatività processuale".

L'occasione per ritornare sui principi fondanti dell'informativa antimafia - sulla quale i giudici non nascondono «le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale» - è offerta da un contenzioso sorto a seguito di una informativa emessa dalla prefettura di Reggio Calabria nei confronti di un'impresa che opera nella ricettività e nell'assistenza ai migranti. I giudici di Palazzo Spada ( sentenza n.6105/2019 pubblicata il 5 settembre - Terza Sezione ) hanno respinto l'appello, confermando il precedente giudizio del Tar Calabria che a sua volta aveva respinto il ricorso. In particolare il Consiglio di Stato ha respinto l'ennesimo attacco degli appellanti al principio guida del "più probabile che non" alla base della informativa delle prefetture. E ha ritenuto che non ci fossero le condizioni né per sollevare la questione di legittimità costituzionale (sugli articoli 8, comma 4, e 91, comma 6, del Dlgs. n. 159/2011), né per sottoporre la questione all'adunanza plenaria.

Nel rinnovare la validità dei principi alla base dell'istituto, i giudici della Terza Sezione hanno però colto l'occasione di precisare e definire meglio il ruolo del giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio in materia di infiltrazione mafiosa. «Il giudice amministrativo - afferma il Consiglio di Stato - è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull'esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l'esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l'autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame».

In sostanza, il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio «deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l'altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l'insidia delle mafie».

A fondamento del ruolo del giudice amministrativo circa l'eventuale abuso di potere del prefetto viene richiamata una recente sentenza della Corte Costituzionale ( n.195 del 24 luglio 2019 ). Citando la sentenza, i giudici spiegano che «allorché si versi - come per le informazioni antimafia - al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l'esigenza di predeterminazione delle condizioni, in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto, possa essere soddisfatta anche sulla base "dell'interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall'uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione"».

Ecco allora a quali elementi deve guardare il giudice chiamato a valutare il ricorso contro un interdittiva emessa dal prefetto. Sul piano sostanziale i giudici ricordano che «l'interpretazione giurisprudenziale tassativizzante seguita dal Consiglio di Stato consente ragionevolmente di prevedere l'applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell'impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività».

Sul piano invece della tassatività processuale, deve scendere nel merito delle notizie, da cui deve emergere (secondo la regola del "più probabile che non") la «gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa». Quadro indiziario che, nel caso particolare esaminato dai giudici di Reggio Calabria e ben illustrato anche dai giudici del Consiglio di Stato, è palesemente emerso in tutta la sua gravità e concretezza. «Le condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale, così enucleate - concludono i giudici - consentono una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della normativa in materia».

Nella valutazione delle «risultanze atipiche» che il prefetto indica nelle sue informative, l'unico confine da non superare è il fatto inesistente o il falso indizio: «solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi». Per il resto «la funzione di "frontiera avanzata" svolta dall'informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini».

La sentenza del Consiglio di Stato n.6105/2019

La sentenza della Corte Costituzionale n.195/2019

La pronuncia del Consiglio di Stato

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