Appalti

Appalti, Corte di giustizia Ue: le sentenze di condanna non passate in giudicato vanno dichiarate. Sempre

di Laura Savelli

Le sentenze di condanna non passate in giudicato debbono essere autodichiarate, anche se riferite ad un soggetto cessato dalla carica. A confermare questa regola, è la Corte di Giustizia, nella sentenza depositata il 20 dicembre 2017, nella causa C-178/16, che chiude ancora una volta una vicenda nata da una domanda di pronuncia pregiudiziale italiana.

La vicenda, nata in Italia
Ad essere esaminato dalla Corte, è il caso di un'impresa esclusa da una gara per aver dichiarato che il proprio presidente del consiglio di amministrazione, nonché amministratore delegato e legale rappresentante - cessato dalla carica nell'anno antecedente la pubblicazione del bando di gara - non aveva riportato alcuna sentenza di condanna definitiva.
Sennonché, nel corso della procedura, la stazione appaltante era venuta a conoscenza del fatto che, proprio dieci giorni prima della data della presentazione dell'autodichiarazione da parte dell'impresa, tale soggetto aveva invece patteggiato una condanna ad un anno e dieci mesi di reclusione per aver promosso un sistema di fatture false: ragion per cui, sono state richieste giustificazioni al concorrente sulla mancata dichiarazione del precedente penale.
A tal riguardo, l'impresa ha sostenuto che la sentenza era passata in giudicato solamente a distanza di tre mesi dalla partecipazione alla gara; ma, soprattutto che, dopo aver appreso la notizia, si era dissociata dalla condotta del soggetto, rispetto al quale era stata disposta la rimozione da tutte le cariche sociali, il riscatto delle azioni detenute e l'avvio di un'azione di responsabilità, oltre al fatto che gli organi di gestione della società avevano subito un riassetto interno.

Dopodiché, sul caso, è stata interpellata anche l'Anac, la quale ha ritenuto che, sebbene non si trattasse di falsa dichiarazione, la mancata tempestiva comunicazione dello sviluppo delle vicende penalmente rilevanti poteva costituire in ogni caso una violazione del dovere di leale collaborazione con la stazione appaltante. Di conseguenza, la stazione appaltante ha deciso di adottare un provvedimento di esclusione in base alla duplice motivazione dell'insufficiente e tardiva dimostrazione della dissociazione dalla condotta penalmente rilevante posta in essere dal soggetto cessato dalla carica, e della mancata dichiarazione della sentenza che era stata in ogni caso pronunciata in un momento antecedente alla gara.
Tale provvedimento è stato impugnato dinanzi al Tar e, dopo la reiezione del ricorso in primo grado, è stato appellato dinanzi al Consiglio di Stato, il quale ha deciso di rivolgersi alla Corte per chiedere se sia compatibile con la disciplina comunitaria l'articolo 38, comma 1, lettera c), del previgente Codice - identico nei contenuti all'attuale articolo 80, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016 - nella parte in cui estendeva l'obbligo dichiarativo sull'assenza di sentenze definitive di condanna per reati incidenti sulla moralità professionale anche ai soggetti che erano cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando, qualora l'impresa non avesse dimostrato una completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata di tali soggetti.

La decisione comunitaria
Questo, il verdetto finale della Corte: è assolutamente compatibile con la disciplina comunitaria una norma nazionale - come l'articolo 38, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163/2006 - che consente ad una stazione appaltante di tener conto di condanne penali per reati incidenti sulla moralità professionale a carico dell'amministratore di un'impresa, anche se tali provvedimenti non siano ancora passati in giudicato e nonostante che i soggetti condannati abbiano cessato di esercitare le loro funzioni nell'anno antecedente la pubblicazione del bando di gara. Di conseguenza, la norma è compatibile anche nella parte in cui consente all'amministrazione di escludere l'impresa, qualora non si sia effettivamente e completamente dissociata dalla condotta dell'amministratore.

Questo, invece, il percorso argomentativo seguito dalla Corte, che muove innanzi tutto da una premessa di carattere generale secondo cui, rispetto ai motivi facoltativi di esclusione elencati nell'articolo 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/Ce, spetta agli Stati membri precisarne le condizioni di applicazione, come previsto dal comma 2 del paragrafo 2 di tale norma; e ciò, proprio in funzione della loro facoltatività, che rimette la decisione del relativo recepimento nelle mani degli stessi Stati membri.
Nel dettaglio infatti - specificano i giudici di Strasburgo - la norma sulla esclusione causata dalla sussistenza di una condanna passata in giudicato per un reato incidente sulla moralità professionale (articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera c), della direttiva 2004/18/Ce) non precisa in che misura reati commessi da dirigenti o amministratori di un'impresa possano condurre all'esclusione. Di conseguenza, partendo dal fatto che le imprese agiscono tramite i propri rappresentanti, un comportamento di tali soggetti che sia contrario alla moralità professionale può costituire un elemento rilevante ai fini della valutazione della stessa moralità professionale dell'impresa; ed è quindi possibile, per gli Stati membri, prendere in considerazione - da questo punto di vista - anche le condotte di un amministratore cessato dalla carica, e ritenere rilevante - ai fini della moralità - un reato, come quello commesso nel caso di specie, che consisteva nella emissione di fatture false; così come, è possibile consentire all'impresa di presentare alla stazione appaltante tutte le prove necessarie a dimostrare la propria dissociazione dalla condotta del cessato.

Ma, a colpire è l'affermazione successiva della Corte. Si legge infatti subito dopo nel testo della sentenza che i fatti esaminati possono essere in realtà inquadrati come errore grave, ai sensi dell'articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d), della direttiva 2004/18/Ce, il quale consente appunto di escludere un offerente «che, nell'esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice». Anzi - specificano i giudici comunitari - tale disposizione si presta proprio ad essere applicata in una situazione in cui la sentenza di condanna per un reato incidente sulla moralità professionale non sia ancora definitiva, differenziandosi dall'ipotesi normativa della esclusione determinata da sentenze di condanne passate in giudicato per il semplice fatto che l'amministrazione aggiudicatrice può invece provare, con qualsiasi mezzo di prova, la sussistenza di un errore grave.
Peraltro, a venire in rilevo, da tale punto di vista, è anche il profilo dell'incidenza della data a decorrere dalla quale il comportamento illecito dell'amministratore di un'impresa può essere ritenuto idoneo a determinare l'esclusione del concorrente, dal momento che, in caso di data eccessivamente risalente, la norma nazionale potrebbe essere idonea a restringere l'ambito di applicazione delle direttive comunitarie. Ma - secondo i giudici - anche da questa angolazione, la disciplina italiana sembra essere rispondente al principio di proporzionalità, prendendo in considerazione l'arco temporale del solo anno antecedente la data di pubblicazione del bando.

Infine - conclude la Corte - anche la circostanza di non aver informato l'amministrazione della condotta penalmente rilevante dell'ex amministratore può costituire un elemento valutativo che consente di escludere un concorrente dalla partecipazione ad una gara d'appalto, essendo inquadrabile nell'ambito della diversa fattispecie prevista dall'articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera g), della direttiva 2004/18/Ce, il quale contempla il caso dell'estromissione di un operatore economico che si sia reso gravemente colpevole di false dichiarazioni.

La disciplina vigente
Essendo riferita ad una controversia sorta sotto la vigenza del d.lgs. n. 163/2006, ci si domanda a questo punto se la pronuncia della Corte risulti attuale anche rispetto alla disciplina contenuta nell'attuale Codice dei contratti.
Da un punto di vista normativo, il passaggio dalla vecchia alla nuova disposizione sui requisiti di ordine generale ha preservato in realtà la struttura originaria dell'articolo 38 del d.lgs. n. 163/2006. Come nella precedente edizione, infatti, anche l'articolo 80 del d.lgs. n. 50/2016 ha optato per il recepimento dei motivi facoltativi di esclusione di cui all'articolo 57, paragrafo 2, della direttiva 2014/24/Ue, nell'ambito dei quali sono state inserite nuovamente le ipotesi del grave illecito professionale (che ha preso il posto dell'errore grave) e delle false dichiarazioni, ed ha confermato - con i commi 1 e 3 - la regola dell'esclusione dalla gara per sussistenza di sentenze di condanna definitive, anche se riguardanti i soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la pubblicazione del bando di gara.
In realtà, ad essere diversa rispetto al passato - comunitariamente parlando - è l'ipotesi delle condanne passate in giudicato. Nell'ambito di tale fattispecie, la precedente direttiva del 2004 distingueva tra casi obbligatori e facoltativi di esclusione (entrambi trasposti nell'articolo 38 del d.lgs. n. 163/2006): i primi, che dovevano essere obbligatoriamente recepiti dagli Stati Ue, comportavano l'esclusione del concorrente condannato per determinate tipologie di reato (partecipazione ad organizzazioni criminali, corruzione, frode e riciclaggio); i secondi, invece, potevano essere recepiti o no dagli Stati Ue, e riguardavano i diversi casi di condanne passate in giudicato per reati incidenti sulla moralità professionale.

Questa distinzione non è stata tuttavia confermata dalle direttive del 2014, che hanno invece concentrato l'attenzione sulla sola fattispecie - a recepimento obbligatorio - delle sentenze di condanna definitiva per reati di partecipazione ad organizzazioni criminali, corruzione, frode e riciclaggio, cui sono stati affiancati anche quelli di terrorismo e lavoro minorile, ed è stata così abbandonata la categoria dei reati incidenti sulla moralità professionale; anche se, poi, in fase di recepimento, il legislatore italiano ha introdotto in via ulteriore, all'interno del comma 1 dell'articolo 80, il caso dei provvedimenti di condanna passati in giudicato per delitti che comportano l'applicazione della pena accessoria dell'incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione.
Pertanto, dinanzi a questi diversi presupposti normativi, che hanno reso di fatto obbligatorio tale specifico motivo di esclusione e hanno di conseguenza sottratto agli Stati la facoltà di precisare le condizioni di applicazione della disciplina comunitaria, ci si domanda se possano considerarsi attuali le considerazioni cui è giunta la Corte, soprattutto con riferimento alla previsione dell'obbligo dichiarativo delle condanne anche a carico dei soggetti cessati dalla carica; e ciò, anche in funzione del fatto che l'articolo 57, paragrafo 1, comma 2, della direttiva 2014/24/Ue circoscrive in realtà tale obbligo ai soli membri del cda, ai membri di direzione o di vigilanza dell'impresa o ai soggetti con poteri di rappresentanza, di decisione o di controllo.

Dall'altro lato, invece, a sembrare particolarmente allineate con la decisione comunitaria sono le linee-guida Anac n. 6/2016 in materia di grave illecito professionale, nella loro versione aggiornata alle modifiche introdotte dal decreto correttivo n. 56/2017, che è stata proprio di recente pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 260 del 7 novembre 2017.
Come oramai noto, l'Autorità è stata chiamata all'adozione di tale provvedimento dal comma 13 dell'articolo 80 del Codice, il quale ha previsto che l'Anac potesse precisare, con apposite linee-guida, i mezzi di prova adeguati per la dimostrazione della circostanza di esclusione del grave illecito professionale indicato dalla lettera c) del comma 5 dello stesso articolo 80, e le carenze significative nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto.
Nell'ambito di tale provvedimento, è stato infatti precisato che rilevano - in termini di grave illecito professionale - anche le condanne non definitive per determinate fattispecie di reato che l'Autorità elenca a titolo meramente esemplificativo, includendovi l'abusivo esercizio di una professione, i reati fallimentari (bancarotta semplice e fraudolenta, omessa dichiarazione di beni da comprendere nell'inventario fallimentare, nonché ricorso abusivo al credito), i reati tributari, i reati societari, i delitti contro l'industria e il commercio, i reati urbanistici e i reati previsti dal d.lgs. n. 231/2001. Ma, unitamente a queste fattispecie, l'Anac considera rilevanti anche quelle per i reati di cui agli articoli 353, 353- bis, 354, 355 e 356 del codice penale, cioè per turbata libertà degli incanti o del procedimento di scelta del contraente, astensione dagli incanti, inadempimento di contratti di pubbliche forniture e frode nelle pubbliche forniture.

Naturalmente - come specificato dalla stessa Anac - anche in tali ipotesi, l'accertamento di tali condanne non definitive deve essere condotto dalla stazione appaltante sugli stessi soggetti a carico dei quali vengono effettuate le verifiche dei provvedimenti passati in giudicato, indicati dal comma 3 dell'articolo 80, che include appunto anche i soggetti cessati dalla carica: ragion per cui, le linee-guida prevedono che debbono essere acquisiti i relativi certificati dei carichi pendenti presso la Procura della Repubblica del luogo di residenza della persona sottoposta a controllo.
Allo stesso modo, le indicazioni dell'Anac appaiono in linea con le previsioni giurisprudenziali della Corte di giustizia anche rispetto all'obbligo dichiarativo delle sentenze di condanna non passate in giudicato al momento di presentazione dell'offerta. In tal senso, infatti, l'Autorità ha precisato che la sussistenza di gravi illeciti professionali deve essere autodichiarata mediante utilizzo del Dgue, poiché è rimesso in via esclusiva alla P.a. il giudizio in ordine alla rilevanza dei comportamenti; di conseguenza - proseguono poi le linee-guida - la falsa attestazione della insussistenza di tali situazioni astrattamente idonee a configurare una causa di esclusione, o l'omissione di tale dichiarazione comportano l'applicazione dell'articolo 80, comma 1, lettera f-bis), del Codice, il quale prevede appunto il caso dell'estromissione dalla gara per aver reso un falso.

Concludendo dunque questa prima lettura della sentenza della Corte, sembrerebbe che, oggi, la regola dell'estensione dell'obbligo dichiarativo delle condanne definitive ai soggetti cessati dalla carica non abbia una copertura comunitaria, essendo venuta meno la facoltatività di tale motivo di esclusione, che impedisce al legislatore nazionale di declinare le diverse condizioni di applicazione della disciplina Ue; al contrario, appare compatibile con il responso della Corte l'indicazione fornita dall'Anac sulla possibilità di prendere in considerazione - in termini di grave illecito professionale - anche le condanne non passate in giudicato riferite ai cessati, sul presupposto che tale motivo di esclusione ha invece mantenuto nelle direttive il suo carattere facoltativo, consentendo agli Stati membri di coniugare il suo contenuto. Ma, se così fosse, si raggiungerebbe il risultato paradossale di considerare rilevanti le sole condotte penalmente rilevanti dei cessati che siano state accertate in primo o in secondo grado, e non anche quelle accertate in via definitiva.

Le conclusioni del l'avvocato generale (M. Campos Sánchez-Bordona) sulla causa C-178/16

La sentenza della Corte di giustizia Ue depositata il 20 dicembre 2017 nella causa C-178/16

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