Appalti

Ricostruzione/2. Disorganizzazione e burocrazia gli errori da evitare

di Giuseppe Latour

Catene di comando organizzate male, con conseguenti polemiche tra livelli centrali ed enti locali. Contributi erogati con lentezza esasperante, tanto da frenare la ricostruzione. Difficoltà tecniche e tempi lunghi, spesso sottovalutati, nei lavori dei centri storici. Senza dimenticare gli episodi di corruzione, il dilemma delle "new town", la matassa delle agevolazioni fiscali e delle questioni progettuali. Scorrendo la storia degli ultimi venti anni di terremoti italiani viene fuori un lungo elenco di errori che il Governo, in queste ore alle prese con i primi tasselli dell'ennesima ricostruzione, non dovrà commettere nel prossimo futuro. In Abruzzo si è, anzitutto, posto il problema della corruzione. Anche se la grande questione della ricostruzione aquilana ha riguardato la catena di comando che ha avuto il compito di spendere le risorse. Una catena che ha funzionato a volte male, come testimoniano le continue polemiche con gli enti locali dei primi anni di lavori.

E come, soprattutto, testimonia il cambio di governance operato nel 2013: addio alla struttura commissariale dipendente dalla Regione e centralizzazione del controllo in capo al Governo. Ne viene fuori un quadro della spesa che dice molto di queste incertezze. Lo Stato ha finora stanziato oltre 21 miliardi, di cui quasi 15 relativi alla sola ricostruzione. Dal 2009 ad oggi, però, sono stati effettivamente erogati quasi 7 miliardi (esattamente 6,95 miliardi), appena un terzo. Senza dimenticare, a livello di progettazione, la contestata scelta di realizzare una new town, con tutto quello che comporta non solo in termini abitativi ma anche di impatto sul commercio e sulle imprese. Anche se Sergio Pasanisi, architetto e consulente del Comune dell'Aquila per la ricostruzione, spiega: «La ricostruzione in un centro storico è molto lunga. L'esperienza delle new town è stata criticata ma ha consentito alle persone di vivere in una condizione migliore». Non è dello stesso parere Giovanni Cardinale del Consiglio nazionale degli ingegneri: «Il modello della ricostruzione seguito in Emilia Romagna e in Umbria si è certamente dimostrato più efficace».

Il tema forte del terremoto in Emilia Romagna del 2012, invece, è quello della burocrazia. Giacomo Pirazzoli, responsabile del servizio economico di Unindustria Ferrara, spiega: «La ricostruzione nelle nostre zone ha sicuramente scontato le brutte esperienze del passato, costringendo a essere molto rigidi sui contributi. I soldi ci sono ma richiedono una trafila lunghissima per essere spesi. Le domande di risarcimento delle imprese sono, in larga parte, in fase istruttoria o di liquidazione». Il motivo è semplice: «La grande complessità delle procedure. Il portale a cui le imprese devono fare domanda di contributo si chiama "Sfinge" e le assicuro che richiede una capacità notevole, tanto che addirittura sono nate delle professionalità apposite per fare le domande». Il risultato è che, al momento, ci sono solo 536 milioni liquidati alle imprese. C'è, poi, il caso del terremoto in Umbria del 1997, ricordato in questi giorni come un modello molto positivo. Anche qui ci furono però delle incertezze. Come le polemiche seguite alla restituzione della cosiddetta "busta pesante", il rimborso delle tasse congelate a favore delle popolazioni locali. In generale, infine, c'è il tema della naturale evoluzione tecnica che c'è stata in questi anni: «Se guardiamo alle soluzioni adottate in passato – conclude Cardinale – sono documentati casi nei quali l'uso di materiali troppo pesanti può avere creato effetti non desiderati dal punto di vista della resistenza ai terremoti. Adesso, però, abbiamo soluzioni che fino a pochi anni fa non erano disponibili».

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