Appalti

Nuovo codice/3. Contro le opere incompiute utile prevedere un reato «colposo» per le Pa

di Francesco Tassone e Antonio Mazzone

Ad una prima valutazione di carattere generale ed in attesa della necessaria regolamentazione di tipo applicativo, è possibile esprimere un giudizio sostanzialmente positivo sull'impatto delle nuove norme del codice appalti in materia di contrasto alla corruzione.

A tale riguardo, risultano sicuramente apprezzabili la marginalità del criterio del massimo ribasso (che rischiava di penalizzare eccessivamente le imprese maggiormente oneste ed attente a tutti i costi anche "normativi" dell'appalto), le nuove regole sulla composizione delle Commissioni giudicatrici, i cui membri dovranno esser esperti inseriti in un albo nazionale istituito presso l'Anac, scelti mediante sorteggio e sottoposti all'attività di controllo e vigilanza dell'Anac medesima.

Altrettanto apprezzabile è l'introduzione e regolamentazione del c.d. "conflitto di interessi" volto ad ostacolare e sanzionare tutti quei casi nei quali i soggetti pubblici e/o privati coinvolti nelle operazioni di gara siano, altresì, portatori di interessi economici, finanziari o personali confliggenti con l'esclusivo perseguimento dell'interesse pubblico.
Ciò premesso, nel nuovo testo sussistono, tuttavia, alcuni punti che sollevano diversi interrogativi proprio sul fronte del contrasto alla corruzione.


Per quanto riguarda gli appalti di lavori, il nuovo codice ribadisce la soglia di un milione di euro (già di per sé comunque molto elevata), al di sotto della quale è possibile effettuare l'affidamento mediante trattativa privata, stabilendo però che sarà possibile consultare soltanto cinque operatori, mentre nel regime attuale ne occorrono minimo dieci.
Analogo discorso vale per le regole sulla progettazione: nel nuovo testo viene più che raddoppiata (da 100mila a 209mila euro) la soglia al di sotto della quale è consentito l'affidamento mediante trattativa privata mediante preventiva consultazione di (soli) 3 operatori. Da ultimo, suscita notevoli perplessità, nel nuovo testo, l'abrogazione dell'attuale limite del 30% previsto per il subappalto, il quale al momento appare sprovvisto di un chiara e precisa delimitazione normativa di tipo quantitativo.

Giova, tuttavia, rilevare che su tutti i sopracitati profili di "criticità" è intervenuto il Parlamento con il recentissimo Parere sullo schema di decreto legislativo del nuovo codice appalti approvato il 7 aprile 2016, evidenziando la necessità di mantenere, per i suddetti punti, l'impostazione, le cautele e limitazioni attualmente vigenti.

Viceversa, sul punto sarebbe stato sicuramente opportuno potenziare le norme già esistenti, ma di portata non sempre cogente e troppo spesso disapplicate dalle stazioni appaltanti (quali ad es. l'art. 118, comma 11, ultimo periodo del D.Lgs. 163/2006 e gli artt. 4 e 5 della Legge n. 136/2010), che sono finalizzate a consentire l'effettiva "conoscenza del cantiere", ovverosia delle imprese che effettivamente vi accedono e svolgono attività, a prescindere dal soggetto che si sia formalmente aggiudicato la gara.

Ad avviso di chi scrive, una capillare ed effettiva "conoscenza del cantiere" da parte della stazione appaltante ed il potenziamento del quadro normativo di riferimento (da rendersi maggiormente cogente e vincolante) volto a garantire tale risultato potrebbero consentire un efficace strumento di controllo sulle reali dinamiche dell'appalto a prescindere dalle risultanze formali, le quali, paradossalmente, appaiono tanto più regolari quanto più l'appalto è a maggior rischio effettivo.

In termini più generali giova rilevare come in un'ottica di prevenzione dei fenomeni correttivi in prossimità di una riforma (o proposta di riforma) di tale portata, i precetti della normativa amministrativa e penale dirette a contrastare la criminalità amministrativa, economica e finanziaria non possono essere valutati secondo una visione di tipo settoriale, ma necessariamente di sistema.

Scelte di politica del diritto e di politica criminale consapevoli richiedono la loro traduzione in interventi creativi di organi e norme adeguate a svolgere una funzione preventiva e repressiva anche in una situazione che presenti un significativo livello di diffusione del fenomeno criminoso da sanzionare.

E prevedano, anche, automatismi applicativi idonei a compensare eventuali bassi livelli di prestazione da parte dei soggetti preposti alla loro attuazione. Il nuovo codice degli appalti, salvo alcuni punti meritevoli di approfondimento ed eventuale rivisitazione, costituisce sicuramente un passo avanti nella gestione e nel controllo del settore anche in una prospettiva di contrasto alla criminalità amministrativa. Sul piano normativo, futuri interventi dovranno riguardare la riduzione degli spazi di discrezionalità della pubblica amministrazione nei punti maggiormente nevralgici, perché più ampia è la discrezionalità (anche in ambiti dove non sarebbe strettamente necessaria) più si aprono spazi per la corruzione. L'accentuare i profili vincolati delle attività amministrative (ove possibile) significa togliere spazio alla burocrazia, la quale spesso rappresenta l' "humus" nel quale albergano fattispecie di tipo corruttivo o similari.

Tali interventi dovrebbero, altresì, prendere in considerazione la reintroduzione di organismi di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti amministrativi (ad iniziare da quelli attinenti a forniture, servizi e lavori pubblici), con composizione eterogenea e qualificata, eliminando così l'esclusività gestionale e decisionale della burocrazia.
Sul piano penalistico, le misure introdotte dal nuovo codice degli appalti saranno tanto più efficaci se si previene e reprime il carattere "sistemico" del fenomeno corruttivo mediante l'introduzione di una nuova fattispecie associativa finalizzata alla gestione e al controllo della pubblica amministrazione.

L'esperienza derivante anche da recenti e note vicende riguardanti fenomeni diffusi di corruzione dimostra che le organizzazioni che si formano per incidere illecitamente nel settore pubblico sono dotate di peculiarità tali da distinguerle sia dalle associazioni di tipo mafioso, sia da altri tipi di associazione, costituendo una sorta di "tertium genus" che necessiterebbe, pertanto, di un'apposita fattispecie di reato.

Uno sforzo ulteriore dovrebbe, anche, essere effettuato per prevenire e reprimere condotte significativamente e ingiustificatamente lesive del patrimonio pubblico, ma allo stato inquadrabili con difficoltà in una delle fattispecie incriminatrici esistenti.
In questa prospettiva dovrebbe avviarsi una riflessione in ordine all'opportunità di procedere ad una riforma che, da un lato, delinei puntualmente le condotte vietate e, dall'altro, ridefinisca l'area del penalmente rilevante andando a cogliere, vietandoli, comportamenti che, nell'apparente rispetto formale delle regole previste, siano sostanzialmente rivolti a ledere concretamente e significativamente il patrimonio di una pubblica amministrazione a vantaggio privato.

In altri termini, una riforma che conduca all'introduzione di nuovi modelli di reato rivolti a prevenire e reprimere condotte elusive della funzione e delle finalità delle norme che disciplinano l'azione della pubblica amministrazione e che si traducano in un'offesa rilevante al suo patrimonio a vantaggio privato.

Si tratta d'impedire che, tra le pieghe delle fattispecie incriminatrici oggi vigenti, restino privi di considerazione spazi meritevoli di copertura penale.

Proprio nel settore dei lavori pubblici si pensi alle opere destinate "ab initio" a restare incompiute o inutilizzabili: affiancare all'attuale illecito contabile non soltanto un modello di reato punibile a titolo di dolo, ma anche una fattispecie delittuosa punibile a titolo di colpa potrebbe forse contribuire a responsabilizzare maggiormente i pubblici amministratori. Colpa consistente nel non aver previsto o realizzato quanto necessario affinché, una volta appaltata, l'opera pubblica sia attuata, realizzata e resa funzionale ai bisogni della comunità nei tempi e secondo le modalità previste.

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