Appalti

Riforma appalti/4. Ma sulla "soft law" non mancano dubbi: iter e costituzionalità

di Roberto Mangani

La riforma degli appalti delineata dalla legge delega n.11/2016 e che sta procedendo a rapidi passi verso l'approvazione in prima lettura del relativo Decreto delegato è ormai comunemente riconosciuta come una riforma "targata Anac".
L'opinione diffusa è che l'Autorità anticorruzione rappresenti il fulcro e il centro propulsivo di tale riforma, tanto da far ritenere che il buon esito della stessa dipenda in gran parte dalla capacità dell'Anac di far fronte con tempestività ed efficacia ai molteplici compiti che la legge delega prefigura in capo ad essa.

Tra questi compiti ve ne sono due che presentano dei caratteri particolarmente innovativi: si tratta del ruolo attribuito all'Anac in relazione a quella che, un po' impropriamente, viene comunemente chiamata "deregolamentazione" e della possibilità che a determinati atti dell'Autorità venga attribuito carattere vincolante.
In attesa di capire in che termini questi due compiti saranno declinati dal Decreto delegato può essere interessante operare un approfondimento per capire l'impatto che possono avere sul sistema e le problematiche cui possono dar luogo.

LA COSIDDETTA «DEREGOLAMENTAZIONE»
Una delle innovazioni presentata come tra le più significative del nuovo quadro normativo delineato dalla legge delega riguarda la soppressione del regolamento attuativo della normativa primaria – oggi contenuto nel DPR 207/2010 – sostituito dalle linee guida emanate dall'Anac.
Nello specifico, l'articolo 1, comma 5 della legge delega stabilisce che tali linee guida siano proposte dall'Anac, sottoposte al parere delle competenti Commissioni parlamentari e infine approvate con Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Si tratta di quella che è stata definita come "soft regulation", il cui obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello di creare un apparato regolatorio di attuazione della normativa primaria caratterizzato da un elevato grado di snellezza e soprattutto flessibilità. L'intento dovrebbe cioè essere quello di sostituire a disposizioni rigide un sistema di linee guida modificabile più agevolmente e con sufficiente celerità per consentire un rapido adeguamento delle regole di applicazione delle norme primarie alle mutevoli esigenze che nascono dalla realtà operativa.

Rispetto questo obiettivo si pone un tema relativo alle modalità che sono state individuate per veicolare nell'ordinamento le linee guida emanate dall'Anac. Tali modalità trovano espressione in un Decreto ministeriale che deve approvare le proposte formulate dall'Anac.
Occorre tuttavia interrogarsi sulla natura di tale Decreto ministeriale. Nel sistema delle fonti del diritto, i decreti ministeriali possono assumere la natura di atti amministrativi a carattere generale o di atti normativi regolamentari. Il diverso inquadramento che possono ricevere non è questione meramente teorica, avendo piuttosto rilevanti effetti sotto molteplici profili, primo fra tutti quello relativo all'iter da seguire per la loro promulgazione.

Infatti, se il decreto ministeriale ha natura regolamentare esso deve essere adottato previo parere del Consiglio di Stato e sottoposto al visto e alla registrazione della Corte dei Conti. Secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato, la natura normativa – e non meramente amministrativa - di un regolamento dipende dal contenuto sostanziale dello stesso: se tale contenuto si sostanzia nella regolazione generale, astratta e integrativa della fattispecie disciplinata dalla norma primaria l'atto è certamente di natura normativa.

In base a questa indicazione, non appare agevole configurare il Decreto ministeriale in questione come mero atto amministrativo, giacché tale qualifica presuppone che esso venga emanato nell'esercizio di un potere amministrativo in senso stretto; mentre nel caso di specie appare più coerente qualificare il Decreto come espressione di una potestà normativa attribuita dalla legge all'organo amministrativo al fine di disciplinare, in termini generali e astratti, aspetti attuativi e/o integrativi della disciplina legislativa di livello primario.

Occorre poi considerare che, per espressa previsione della legge delega, il Decreto ministeriale in questione deve ricevere il preventivo parere delle competenti Commissioni parlamentari. E anche tale elemento depone a favore della sua configurazione come atto normativo regolamentare, essendo difficilmente concepibile che su un mero atto amministrativo si pronunci un organismo di natura parlamentare.

Se le riflessioni precedenti colgono nel segno non si può fare a meno di rilevare che l'effetto di flessibilità del sistema che dovrebbe essere l'obiettivo fondamentale dello strumento introdotto rischia di essere fortemente penalizzato. Se infatti le linee guida predisposte dall'Anac hanno necessità, prima di essere emanate e diventare quindi cogenti, di seguire l'iter previsto per i decreti ministeriali di natura regolamentare (parere preventivo del Consiglio di Stato e registrazione e visto della Corte dei Conti, cui si deve aggiungere il parere preventivo delle Commissioni parlamentari competenti), è evidente che la possibilità di adeguamento tempestivo dell'apparato regolatorio secondario esce fortemente ridimensionata.

A ben vedere, infatti, il procedimento di emanazione di un decreto ministeriale avente natura regolamentare non è molto diverso da quello che presiede all'emanazione di un DPR, che era appunto lo strumento che veicolava il regolamento attuativo del D.lgs. 163/2006 e che la legge delega ha voluto espressamente sopprimere. Cosicché sembra delinearsi una situazione in cui la novità introdotta rischia di tradursi più in un fatto nominalistico che in un profondo mutamento delle modalità di regolazione secondaria della materia dei contratti pubblici.

L'EFFICIACIA VINCOLANTE DEGLI ATTI DELL'ANAC
La lettera t) del comma 1 dell'articolo 1 della legge delega attribuisce all'ANAC poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare, di deterrenza e sanzionatorio. Inoltre, all'ANAC è conferito il potere di adottare atti di indirizzo quali linee guida, bandi tipo e contratti tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile che, per espressa previsione della norma, possono assumere anche efficacia vincolante, salva la loro impugnabilità davanti al giudice amministrativo.
La previsione della possibile efficacia vincolante degli atti emanati dall'ANAC costituisce un elemento di grande innovazione del sistema e presenta alcuni profili critici che vanno analizzati con attenzione.

L'Anac – che relativamente alla materia dei contratti pubblici ha incorporato le funzioni che facevano precedentemente capo all'AVCP - rientra, sotto il profilo dell'inquadramento concettuale, nella categoria delle Autorità amministrative indipendenti. Tale categoria ha in realtà una valenza generica, assommando in sé Autorità che hanno caratteristiche e poteri diversi tra loro.
In particolare la configurazione attuale dell'ANAC deriva in gran parte dai poteri che la stessa ha ereditato dall'AVCP. Prescindendo dagli specifici poteri che le sono stati attribuiti ai fini del c.d. commissariamento delle imprese, essa si connota come un'Autorità investita essenzialmente di poteri di vigilanza generale e di garanzia del sistema, con poteri di intervento diretto limitati.

In linea generale le competenze dell'ANAC si estrinsecano attraverso l'emanazione di atti di indirizzo, determinazioni, delibere o ancora di raccolta dati che concretizzano una vigilanza "leggera", volta essenzialmente a fornire orientamenti e canoni interpretativi agli operatori del settore. I poteri di intervento diretto si esauriscono sostanzialmente nei poteri sanzionatori, relativi all'annullamento o sospensione delle attestazioni SOA e alle sanzioni da infliggere a chi non fornisce i dati e i documenti all'Osservatorio.
Anche l'attività relativa al così detto precontenzioso non assume forza vincolante, poiché i pareri che vengono rilasciati non obbligano le parti alla loro osservanza né tanto meno precludono il ricorso agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale.
Unica parziale eccezione è rappresentata dalla previsione contenuta all'articolo 64 del D.lgs. 163/2006, secondo cui le stazioni appaltanti sono tenute a predisporre i bandi sulla base del bando tipo adottato dall'Autorità e devono motivare espressamente qualora intendano derogare dalle relative clausole.

Fino ad oggi era dunque pacifico che agli atti dell'Autorità – ad eccezione di quelli espressione di poteri sanzionatori - non poteva essere attribuita alcuna efficacia vincolante (vedi Cons. Stato, Sez, IV, 5 aprile 2003, n. 1785); tanto che la giurisprudenza ha coerentemente ritenuto gli stessi non impugnabili davanti al giudice amministrativo in quanto privi di immediata lesività (Tar Lazio, Sez. III, 10 luglio 2002, n. 6241).
In questo quadro complessivo in cui l'Autorità ha svolto fino ad ora essenzialmente un ruolo di indirizzo, vigilanza e di moral suasion, la possibilità che taluni atti dell'ANAC abbiano efficacia vincolante è destinata a produrre una netta discontinuità rispetto al sistema vigente.

Occorrerà in primo luogo capire a quali atti si estenderà la possibilità di renderli vincolanti, fermo restando che appare necessario che la scelta in questo senso venga operata dal legislatore delegato. Non appare infatti ammissibile che tale scelta sia demandata alla stessa Autorità, posto che trattandosi comunque di atti proveniente da un'autorità amministrativa la loro eventuale efficacia vincolante deve trovare fondamento in una norma di legge. E non pare sufficiente, sotto questo profilo, che si faccia riferimento a un'astratta possibilità prevista dal legislatore, il cui concreto esercizio venga lasciato alle scelte autonome della stessa autorità emanante.

Quanto poi agli effetti conseguenti alla riconosciuta efficacia vincolante degli atti emanati dall'ANAC, occorre leggere la possibilità prevista con la successiva disposizione secondo cui tali atti sono comunque impugnabili davanti agli organi di giustizia amministrativa.
In linea astratta sono legittimati a impugnare tali atti sia gli operatori economici che gli enti appaltanti. Per i primi, tuttavia, in linea generale sembra doversi escludere la possibilità (ovvero l'onere) di impugnazione immediata. L'ipotesi più comune, infatti, è che l'atto dell'Autorità debba essere impugnato quando effettivamente produce i suoi effetti lesivi nella sfera giuridica del soggetto interessato, e quindi presumibilmente insieme allo specifico provvedimento dell'ente appaltante (bando di gara o altro provvedimento) che fa applicazione dell'indicazione vincolante contenuta nell'atto dell'ANAC.

Più complessa si presenta la situazione con riferimento agli enti appaltanti. Questi ultimi, a fronte di un atto dell'Autorità dotato di efficacia vincolante, qualora lo ritengano non conforme alle norme e quindi illegittimo e non intendano di conseguenza adeguarvisi hanno come sola possibilità quella di impugnarlo davanti al giudice amministrativo.
Tuttavia non è agevole individuare il momento in cui sorge l'onere di impugnazione, cioè quale sia il momento in cui l'atto dell'Autorità produce effetti lesivi nei confronti dell'ente appaltante. L'individuazione di tale momento dipende certamente dalla natura dell'atto emanato e dal suo concreto contenuto, ma le questioni che si possono porre sono molte e non tutte facilmente risolvibili. Solo per fare l'esempio più classico, se l'efficacia vincolante fosse riconosciuta al bando tipo, l'ente appaltante avrebbe l'onere di impugnarlo immediatamente, cioè non appena l'Autorità l'abbia reso pubblico, ovvero solo nel momento in cui si apprestasse a indire una gara per la quale non intendesse attenersi alle regole contenute nel bando tipo ?

Il tema dell'impugnabilità sottintende in realtà un'altra e ben più importante questione, relativa alla piena legittimità costituzionale di una norma che impone agli enti appaltanti l'efficacia vincolante di atti emanati da un'altra autorità amministrativa (per quanto indipendente).
Per inquadrare la questione può essere utile ricordare quanto a suo tempo ha statuito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 482 del 1995 proprio con riferimento all'allora neocostituita Autorità dei lavori pubblici. A fronte di una nutrita serie di ricorsi promossi da parte di molte regioni che contestavano la legittimità delle norme che istituivano l'Autorità e ne delimitavano le competenze, la Corte Costituzionale dichiarò la piena costituzionalità delle stesse sulla base della considerazione fondamentale secondo cui le attribuzioni riconosciute all'Autorità non sostituivano né surrogavano alcuna competenza di amministrazione attiva o di controllo, esprimendo piuttosto una funzione di garanzia e di vigilanza del settore.
In sostanza, le censure di illegittimità costituzionale furono respinte proprio mettendo l'accento sul fatto che gli atti dell'Autorità non sostituivano le scelte dei committenti né interferivano in alcun modo con compiti e le attribuzioni di amministrazione attiva, che venivano lasciati nella piena discrezionalità degli enti appaltanti.

E' evidente che questa affermazione perde di valore nel momento in cui agli atti dell'Autorità viene attribuita efficacia vincolante, poiché in questo modo gli stessi interferiscono in maniera significativa con le funzioni di amministrazione attiva. Detto altrimenti, gli enti appaltanti non sono più titolari esclusivi della discrezionalità amministrativa in merito alle modalità di svolgimento delle gare, ma sono appunto limitati nell'esercizio delle loro funzioni di amministrazione attiva da prescrizioni vincolanti che provengono da un'altra autorità amministrativa.

È quindi fondato il dubbio che la previsione che attribuisce efficacia vincolante agli atti dell'Anac sia a rischio di illegittimità costituzionale, incidendo in maniera significativa sull'autonomia amministrativa degli enti appaltanti, coperta da garanzia costituzionale in virtù dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione.

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