Il Commento Appalti

Nella riforma degli appalti le prime risposte utili a problemi irrisolti da venti anni

di Giorgio Santilli

Fa impressione leggere oggi le cronache e i commenti che 21 anni fa accolsero l’approvazione della legge Merloni, riforma degli appalti che avrebbe dovuto consentire l’uscita da Tangentopoli e, al tempo stesso, dare un quadro di regole «europeo» per una maggiore efficienza economica del settore e una maggiore velocità di realizzazione dei lavori. «Dalla centralità della variante alla centralità del progetto», si disse allora, «trasparenza e obbligo di gara» come soluzione a un mercato opaco, «un sistema di qualificazione rinnovato» (c’era l’Albo nazionale costruttori), rafforzamento della programmazione e della Pa. Con le dovute differenze, molte delle cose che si dicono oggi. La Merloni entrò in vigore il 6 marzo 1994 e 50 giorni dopo fu già sospesa dal governo Berlusconi con il «decreto Radice». Cominciò un tira e molla parlamentare che produsse tre riforme organiche (le Merloni-bis, -ter e -quater) prima di lasciare il campo al nuovo codice appalti nel 2006. Altra piattaforma di instabilità: in 9 anni, il codice ha subìto 597 modifiche, il 60% delle sue norme almeno una modifica, 6.000 sentenze amministrative.

Né la Merloni né il codice appalti - né la legge obiettivo del 2001 sulle grandi opere - sono riusciti a dare le risposte che il settore cerca da un ventennio e che la Merloni aveva messo sul tavolo. Cosa portò al fallimento di quella legge? Certo, un eccesso di rigidità, come si disse dall’inizio: il “modello unico” del contratto di lavori in gara su progetto esecutivo andava inteso come riferimento del mercato, non come unica possibilità. Ma il fallimento della Merloni fu dato anche da altre due cause. La prima è che quella legge fu subito “abbandonata” da tutti (e in particolare da quelli che avrebbero dovuto applicarla): costruttori, professionisti , amministrazioni pubbliche (soprattutto comunali) cominciarono ben presto un cannoneggiamento che non aiutò l’attuazione. Mancò un tutor, mancò chi fosse capace di promuovere quella legge, sostenerne l’applicazione.

L’altro limite della legge - un limite interno - fu non prevedere un’autorità forte di regolazione. In realtà Governo e Parlamento intuirono il problema e istituirono l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici: ma fu un’Autorità sbiadita e incerta nei poteri, chiamata a intervenire come “vigilante” più che come regolatore. Mancò un soggetto che al centro del sistema potesse interpretare le norme in una chiave operativa, utile per applicarla senza aprire spazi eccessivi all’interpretazione del giudice.

La legge approvata ieri dalla Camera è una riforma a tutto campo che dà risposte alle stesse domande di pulizia ed efficienza di 20 anni fa. Forse è una legge ridondante ma predica semplificazione e in questo senso i decreti delegati saranno la risposta finale. La legge non ripete però l’errore del vuoto di regolazione e individua al centro del sistema un soggetto forte - l’Anac di Raffaele Cantone - chiamato, grazie alla virata verso la soft law, a dettare e interpretare le norme in chiave operativa. È la vera sfida di una legge che può riuscire dove la Merloni fallì. Bisogna fare in fretta, però, nell’attuazione, perché non sarà possibile accelerare gli investimenti senza norme chiare, semplificate e flessibili, e senza certezze su “chi fa che cosa”.