Urbanistica

Cambi d'uso/2. «È sempre ristrutturazione, anche con mini-opere». Così salta la pianificazione comunale

di Massimo Ghiloni

La Corte di Cassazione, sez.III penale, con la sentenza n.6873/2017 ha affermato il principio che il mutamento di destinazione d'uso di edifici esistenti, attuato anche con lavori di modesta entità, configura una ristrutturazione edilizia soggetta a permesso di costruire in quanto porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto od in parte diverso dal precedente. La conseguenza pratica è che nelle zone dove non è consentita la ristrutturazione edilizia (nella fattispecie il centro storico di Firenze) non è da ritenersi ammissibile il mutamento di destinazione d'uso.
Tutto ciò ricorda la vicenda già vissuta con la demolizione e ricostruzione dell'immobile che inizialmente era qualificata come nuova costruzione, ma poi, grazie anche all'elaborazione giurisprudenziale, si è operato un distinguo relativo alla fedele ricostruzione (limitata poi dalla legge 164/2014 (Sblocca Italia) al rispetto della volumetria preesistente, ma non della superficie e del numero delle unità immobiliari con alcuni distinguo per i centri storici e gli immobili vincolati) da inquadrare come ristruturazione edilizia, così da renderla ammissibile nelle zone dove erano vietate le nuove costruzioni.

È opportuno anche ricordare che sempre la l.164/2014 ha ridisegnato (introducendo l'articolo 23-ter nel Testo unico edilizia) la disciplina del mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante al fine di agevolare l'utilizzazione plurifunzionale degli edifici nel tempo: sono state accorpate le varie ipotesi d'uso in cinque categorie funzionali, ossia residenziale, turistico-ricettiva, produttiva-direzionale, commerciale e rurale, senza però affrontare il tema della peculiarietà degli standards urbanizzativi, ad esempio tra industriale e direzionale. Si prevede, poi, che il mutamento di destinazione d'uso è da considerarsi rilevante solo allorquando la nuova utilizzazione comporti l'assegnazione ad una catagoria funzionale diversa da quella originaria, con la conseguenza che il mutamento di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria è sempre consentito. Inoltre, la destinazione d'uso di un fabbricato è quella prevalente in termini di superficie, per cui la destinazione della parte residuale può essere diversa.

Inoltre, con riferimento alle normative regionali si rinvengono specifiche disposizioni (Lombardia l.12/2005 art.52) relative al fatto che i mutamenti di destinazione d'uso conformi alle previsioni urbanistiche comunali e connessi alla realizzazione di opere edilizie non mutano la qualificazione dell'intervento ed il titolo abilitativo necessario, in quanto ciò che rileva è l'entità delle opere, dovendosi perciò evidenziare un contrasto con le indicazioni della Cassazione.

La sentenza specifica inoltre che la realizzazione delle opere edilizie non può essere autorizzata con un'artificiosa parcellizzazione nel tempo, ma con riferimento unitario al complesso; nella fattispecie sono state presentate ben 18 DIA successive. Relativamente all'entità delle opere, i giudici richiamano previsioni normative che prevedono comunque (a giudizio della Corte) il permesso di costruire nel caso di: manutenzione straordinaria che comporti mutamento di destinazione d'uso, anche se alla luce di recenti modifiche si può consentire il frazionamento delle unità immobiliari, la variazione delle superfici e del carico urbanistico; restauro risanamento conservativo che modifichi gli elementi tipologici dell'edificio. In proposito, l'art. 79 della l.12/2005 della Regione Toscana ritiene ammissibile l'adeguamento funzionale degli edifici mantenendo gli elementi tipologici, formali e strutturali.

Il ragionamento della Corte è dunque incentrato su una interpretazione restrittiva del restauro e risanamento conservativo e sulla necessità del permesso di costruire assimilando l'intervento ad una nuova costruzione (non in senso fisico, ma di un differente organismo edilizio) avendo, però, come conseguenza il fatto di incidere sulla sostanza delle scelte pianificatorie dell'amministrazione in quanto si rendono inammissibili alcune scelte di piano che intendevano rendere fattibili interventi di risanamento funzionale anche in particolari zone della città nel rispetto degli elementi da tutelare. Quantomeno può essere un interessante esempio di eterogenesi dei fini.

Il divieto non dovrebbe essere, però, ricondotto alla problematica formale del titolo abilitativo necessario, bensì alle esigenze di interesse pubblico da perseguire con la pianificazione, fermo restando che il mancato controllo delle destinazioni d'uso ha nei fatti cambiato alcune realtà locali nella loro identità culturale e storico- architettonica, anche se non sono mancati alcuni rilevanti esempi di adeguamento funzionale per valorizzare porzioni del territorio in una logica di diversificazione degli usi. E' un problema di regia amministrativa del territorio e non di formalismi giuridici.

La sentenza contiene anche altre affermazioni degne di nota in relazione ad alcuni specifici temi che riguardano i soggetti coinvolti nel procedimento.
Si fa anzitutto rifrimento ad un"inammissibile atto di fede" da parte del tribunale in quanto si è ritenuta ammissibile la realizzazione delle opere in base a semplice DIA perché così avevano attestato i professionisti che avevano redatto gli elaborati tecnici, con l'avallo del comune e della soprintendenza che avevano condiviso la qualificazione dell'intervento come restauro, mentre è compito del giudice accertare l'intervento nella sua consistenza, qualificarlo ai sensi del Dpr 380/2001, individuare quale sia il titolo abilitativo da richiedere. Da ciò si fa discendere la rilevante affermazione che se viene accertata la necessità del permesso di costruire, il giudice non deve disapplicare la DIA, ma prendere atto del fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che lo consente. Ne' rileva l'eventualità che l'opera possa essere conforme a quella oggetto della DIA; inoltre, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre autorità non escludono la natura illecita della costruzione, ne' incidono sulla consapevolezza della natura abusiva dell'opera.

La Corte si sofferma poi sulla fungibilità della DIA con quella sostitutiva del permesso di costruire, c.d. SuperDIA, affermando che quest'ultima è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, ma non alla semplice DIA rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità anche ai fini delle conseguenze penali che altrimenti verrebbe meno.
Inoltre, il dirigente o il responsabile dell'ufficio urbanistica del comune è titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento che ne determina la responsabilità in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, per cui il reato non è condizionato dalla presenza di addebbiti di natura collusiva.
Relativamente alla responsabilità del professionista che opera per conto del privato, la valutazione dello stesso non è assistita da alcuna presunzione di veridicità essendo riservato agli uffici competenti ogni valutazione sulla conformità dell'opera , sulla qualificazione dell'intervento e sul regime edilizio. Oggetto materiale della falsità non è dunque il progetto, bensì la specifica dichiarazione del progettista incaricato dell'asseverazione di conformità.

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