Urbanistica

Corte di Cassazione: niente sconti sul rispetto delle distanze tra le tubazioni in condominio

di Pietro Verna

La peculiare struttura architettonica dell'edificio condominiale consente al giudice di valutare, caso per caso, se la deroga alla disciplina in tema di distanze fra i tubi d'acqua e le loro derivazioni determini o meno una soluzione ragionevole nell'interesse dei rapporti di vicinato (Corte di Cassazione, 17 giugno 2016 n. 12633).

Con l'enunciazione di questo principio il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso proposto avverso la pronuncia della Corte d'appello di Venezia che, in conformità a quanto stabilito nel primo grado di giudizio dal Tribunale di Verona, aveva condannato il proprietario di un appartamento sito in uno stabile condominiale a rimuovere gli scarichi idrici che aveva installato ad una distanza illegale dall'appartamento contiguo. Decisione che entrambi i giudici di merito avevano motivato escludendo che, nella fattispecie, ricorressero le condizioni per derogare alle prescrizioni dettate dall'articolo 889 del codice civile (che stabilisce le distanze minime da mantenere) , in quanto il posizionamento degli scarichi era stato frutto della scelta del proprietario di suddividere l' appartamento in due unità immobiliari per agevolarne la vendita.

La sentenza della Corte di Cassazione
Il ricorrente aveva denunciato la contraddittorietà della pronuncia della Corte d'appello perché, pur affermando il principio di diritto sulla derogabilità delle distanze prescritte dall'articolo 889 del codice civile nel caso in cui non sia possibile posizionare altrimenti le tubazioni, la stessa pronuncia si era incentrata sulla «scelta speculativa» del condomino di suddividere l'appartamento, «senza piuttosto verificare se la collocazione degli impianti fosse compatibile con il rispetto delle distanze legali». Tesi che la Corte di Cassazione ha ritenuto priva di pregio, facendo rilevare che, secondo gli accertamenti compiuti dai giudici di merito, l'appartamento in questione era originariamente dotato di impianti «pienamente funzionali» e che, peraltro, «il consulente tecnico aveva accertato la possibilità di un racciato diverso seppure con costi superiori».

Di qui la conclusione degli "Ermellini", secondo cui le norme che disciplinano i rapporti fra condomini, incluso l'articolo 889 del codice civile, trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto se «compatibili con la struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari»; con la conseguenza che, nel caso in cui tali norme siano invocate in un giudizio fra i condomini, il giudice è tenuto a verificare se la loro rigorosa osservanza non sia irragionevole. Verifica che, nel caso di specie, la Corte d'appello e il Tribunale non hanno ritenuto opportuno compiere, perché l'installazione delle tubazioni a distanza illegale non era dovuta a una situazione strutturale dell'edificio ovvero a necessità che rendevano irragionevole il rispetto delle distanze , ma esclusivamente «all' esigenza soggettiva del condomino di rendere commerciabile l'immobile sul mercato» . Il che- argomenta la sentenza - configura anche una palese violazione dell'articolo 1122 del codice civile («nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio […] alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio»).

La giurisprudenza a tutela del confinante danneggiato
In tema di tutela del soggetto danneggiato da condotte commesse in violazione delle norme in materia di distanze fra le costruzioni, la Corte di Cassazione ha formulato il principio secondo cui a questi compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria. Ciò in considerazione del fatto che il danno subito si traduce in una abusiva imposizione di una servitù e, quindi, nella limitazione del godimento del diritto di proprietà nonché in una diminuzione del valore del bene (sentenza n. 1989/2016). Principio, quest'ultimo, che i Supremi giudici hanno ribadito in pronunce meno recenti di quella in narrativa (vedasi, in particolare, sentenza n. 16916 /2015; sentenza n. 7752/2013 e sentenza n. 25475/2010).

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