Imprese

Ambiente, la Cassazione indica tre criteri per valutare i rifiuti con codice a specchio

di Paola Ficco

Con la sentenza 47288/2019, la Corte di Cassazione ha recepito le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia Ue (sentenza 28 marzo 2019, da C-487/17 a 489/17) alla sua domanda pregiudiziale in tema di classificazione dei rifiuti dotati di "codice specchio" (ordinanza 37460 del 27 luglio 2017). Si tratta dei rifiuti che non hanno una composizione immediatamente nota, poiché possono essere pericolosi o meno in ragione della presenza di determinate sostanze. Il problema è sempre stato quello di capire cosa cercare e come. Forte dei principi comunitari, la Cassazione ha stabilito che i criteri per indirizzare la ricerca delle sostanze pericolose devono essere coerenti con la «metodologia individuata» dalla corte Ue ed è onere del detentore provare di essersi uniformato.

La sentenza merita la massima attenzione anche per gli effetti che produrrà su procedimenti e accertamenti in corso. Infatti non concorda con il tribunale di Roma sul fatto che, per determinarne la pericolosità, l'analisi dei rifiuti a specchio «deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo». Il che va letto unitamente al rilievo che tale soluzione sarebbe «riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia».Pertanto, non si tratta di un surrettizio recupero del "criterio della certezza", errato al pari di quello opposto della "probabilità". Inoltre l'impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi tecnici ed economici non può assolutamente essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione.

Ed è proprio qui che la Cassazione fissa il punto di bilanciamento: per individuare le sostanze da ricercare occorre utilizzare la metodologia indicata nella pronuncia della Corte Ue ai punti 42 e 43 dove «i giudici europei illustrano i diversi metodi per raccogliere dette informazioni, richiamando, oltre a quelli indicati alla rubrica intitolata "metodi di prova" di cui all'allegato III della direttiva 2008/98, la possibilità di fare riferimento: 1) alle informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione che generano rifiuti nonché sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti; 2) alle informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell'oggetto prima che questi diventassero rifiuti, ad esempio schede di dati di sicurezza, etichette del prodotto o schede di prodotto; 3) alle banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri; al campionamento e all'analisi chimica dei rifiuti, evidenziando, con riferimento a tale ultimo punto, che analisi chimica e campionamento devono offrire garanzie di efficacia e di rappresentatività (punto 44)». Inoltre, «va certamente esclusa la presunzione di pericolosità» come indicato dalla sentenza Ue. Ora la parola torna al tribunale di Roma.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©